foto di Bianca Madeccia

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Sono un ragno, mi chiamo Domenico. Vivo dentro una damigiana in una vecchia casa abbandonata. Vicino alla damigiana c’è un materasso tutto pieno di muffa e poi una sedia rotta. Io sono un ragno disoccupato. Faccio ogni giorno la mia tela, ma mosche non se ne vedono. Sono molto dimagrito, sembro un filo della mia tela.

 
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Sono un topo, mi chiamo Filippo. Vivo nella casa di uno scapolo. Lui si chiama Alberto. Ha una cinquantina d’anni, ma sembra più vecchio. Da poco gli è morta la madre, dunque vive da solo. Non lo sa che con lui ci sono pure io e gli faccio compagnia. In realtà non mi faccio mai vedere, l’ho sentito più volte dire che lui ha paura dei topi. In verità Alberto ha paura di tutto. La sera resta per un sacco di tempo a tavola, mangia noccioline e ogni tanto si fa un bicchiere di vino. Io sto al posto mio, faccio quello che lui non sa più fare, faccio tanti sogni, sono un topo sognatore.

 
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Io ero un porco, allora tutti dicevano che ero un porco, la parola maiale non la conosceva nessuno. Vivevo davanti alla prima casa del paese, la casa di Tommaso. Nel paese eravamo più di mille, uno davanti a ogni casa. Molti stavano nei vicoli, all’ombra. Io ero fortunato, stavo davanti a una casa nuova. Tommaso aveva fatto i soldi in Svizzera e si era fatta una casa tutta moderna. Di vecchio c’ero solo io, il porco. Tommaso non mi teneva per farmi la festa, per mangiare come facevano tutti. Insomma, sono morto di vecchiaia.

 
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Una volta nelle case del paese appendevano una striscia di carta con la colla sopra. La chiamavano carta moschicida. Poi arrivarono quegli spruzzi di veleno che chiamavano Ddt. Adesso per ammazzarci alcuni usano delle racchette che se ci sbatti contro prendi la corrente elettrica e muori bruciata. Insomma è sempre una guerra. Ci vuole fortuna perché qualcuno ti stringa nel pugno della sua mano e ti porti fuori dalla casa e ti rifaccia volare.

 
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Un cane zoppo e con un occhio malato non interessa a nessuno in questi paesi di adesso pieni di macchine e di case vuote. Una notte ci hanno avvelenato, eravamo una trentina. Dicevano che eravamo pericolosi, non lo so se era vero, io ero un cane stanco e sfiduciato e non avevo la forza né di mordere né di abbaiare. Giravo quando avevo fame e se trovavo qualcosa da mangiare poi me ne stavo sotto una panchina. Ascoltavo le chiacchiere dei vecchi. Mi alzavo solo quando mi tornava la fame.

 
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C’è stato un tempo in questi paesi dove i bambini giocavano a prendere i passeri nella tagliola. Succedeva d’inverno quando veniva la neve. C’era un ragazzo che si chiamava Antonio. Lui passava giorni interi a prendere i passeri nella tagliola. In fondo gli bastava una briciola di pane. A me non è successo di finire nella tagliola. Ero un passero strano, non mi piaceva il pane.

 
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Gli asini una volta servivano a tante cose. Io ero una vecchia asina bianca. Il mio padrone si chiamava Luigino, era il padrone di una locanda. Mi metteva i barili sulla groppa e mi portava alla fontana a prendere l’acqua. Io ero piccolina e lui aveva le gambe lunghe. Tutta la mia vita sempre a portare acqua, mai una volta che l’ho portato in groppa. Si vede che era questo il mio destino e di Luigino con le gambe lunghe, sempre a camminare a piedi, nonostante avesse un’asina bianca.

 
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Sono la formica Fabrizia. Oggi non sono uscita, fatti miei. E poi certe volte una si scoccia di mettersi in fila per un insetto morto, per un chicco di grano.

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 Sono una farfalla e oggi è il sedici di giugno. Sono dentro una chiesa, su un fiore cresciuto dove c’era l’altare. Noi farfalle stiamo benissimo nei paesi abbandonati. In genere stiamo benissimo dove non c’è niente da fare.

 
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Io sono un calabrone. Vorrei dire a Marcello, il bambino che mangiava il gelato davanti a casa sua, vorrei dirgli che non c’ero, ero solo una sua impressione. Quel rumore che sentiva non ero io, era una sega che tagliava la legna in un’altra strada. Io non so chi ha messo in testa ai bambini che noi calabroni siamo pericolosi. Che ce ne importa a noi di un bambino che mangia un gelato?

 
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Dopo il terremoto noi faine avevamo preso a correre sui fili che stanno tra una casa e l’altra. Uscivamo la sera e giravamo per le soffitte delle case terremotate. Poi hanno aggiustato tutto e noi faine abbiamo preso altre strade. Conosco un ragazzo di nome Franco che usciva apposta per vederci. Faceva finta di parlare coi suoi amici, in realtà usciva per noi, gli piaceva vederci passare veloci sopra il filo. In quel modo il paese somigliava un poco a un circo.

 

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Io ero una volpe. Sono morta due anni fa quando c’è stata la grande nevicata. Non avevo mai visto tanta neve. Nevicava, nevicava sempre, e dopo qualche giorno non si trovava più niente da mangiare. Nessuno ha pensato a noi. Pensavano solo a buttare il sale per viaggiare con le macchine.

 
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Mi chiamo Califfa, sono l’ultima gallina del paese. Se ancora si trova qualche uovo fresco è merito mio. Mi dispiace un sacco che sto sempre chiusa nell’orto, non posso uscire in mezzo alla strada, perché dicono che le galline sporcano e quindi fanno la multa ai proprietari. Scriverò una lettera al sindaco, voglio dire che il paese deve tornare a riempirsi di muli, di maiali e di galline.

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Sono una capra e vivo a Craco, un paese della Lucania. Le persone dicono che è un paese morto. Le persone dicono sempre così quando in un posto non ci sono più gli uomini, come se noi capre e le bisce e i corvi e le lumache e le lucertole, come se noi animali non contassimo niente. A Craco abbiamo pure il problema che il sindaco non ci vuole nel paese, perché il sindaco pensa che le rovine devo fruttare un po’ di soldi e invece noi capre diamo solo un po’ di latte. Comunque a Craco siamo tante, il nostro padrone ci lascia tutto il giorno a vagare tra le rovine del paese. Per noi non è un problema scavalcare un muro rotto, affacciarci a una finestra dove non si affaccia più nessuno. Io una volta che ho mangiato passo tutto il mio tempo a entrare e a uscire dalle case rotte. Posso sfogliare un libro con le zampe, mettere il muso nella tasca di un vecchio cappotto, bere a un rubinetto da cui non esce acqua. Per una capra stare a Craco è come per il papa stare nella Cappella Sistina. Spero che il sindaco si renda conto e ci lasci in pace. Noi non diamo fastidio a nessuno. Una capra non morde e non abbaia. E non ha problemi a farsi fotografare. Io addirittura mi metto in posa quando arriva qualche turista. Sono una capra vanitosa, altrimenti non starei qui a scrivere.

 
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Io sono un poeta e quindi sono un animale. Come gli animali, il poeta è una creatura che sta sempre con le orecchie tese, sempre a spiare il pericolo. Gli animali devono sempre guardarsi da qualche altro animale: un topo ha l’incubo del gatto e la gazzella ha l’incubo del leone. Il poeta ha l’incubo del mondo intero, il poeta scrive e trema, non sa fare altro. Ogni attimo richiede una piccola avventura per arrivare al successivo. Tra un attimo e l’altro in effetti c’è la stessa distanza che c’è tra una stella e l’altra. E gli attimi sono tanti come le stelle e quando finiscono gli attimi ci sono altri attimi, e quando finiscono le stelle ci sono altre stelle. Il poeta le sa queste cose, il poeta è qui per unire ciò che la vita separa. La metafora è proprio questo, è una corda che tiene insieme cose lontane. Il poeta unisce nella sua carne i vivi e i morti, l’allegria e il dolore, il silenzio e la parola. Il poeta è lontano dagli uomini come può essere lontano un riccio, un moscone. Il poeta non vola, non c’entra niente coi gabbiani. Anzi, il poeta è un animale che si trascina, ha sempre un po’ di affanno. Il poeta è un animale notturno, anche se va in giro anche di giorno. Lui vede dal buio perché gli fa luce il batticuore e quello che vede dal buio rimane dentro al mondo anche quando il poeta muore. Il poeta è l’animale che vive non vivendo, che ama non amando, che dorme non dormendo. Il poeta è sempre lontano e vicinissimo a tutte le cose. Se lo incontrate non pensate che si possa fermare con voi. Lui è fatto per andare altrove. Se Dio ha fatto il mondo e ha dato a ciascuno un compito: il mare fa il mare, il cane fa il cane, l’uomo fa l’uomo, nessuno sa cosa fa il poeta dentro il mondo. Non lo sa lui per prima e per questo scrive, per scoprirlo.

(Franco Arminio. Esercizi di paezoologia”. Inedito)