Per una poesia del margine

 

1. La muta

Ciò che resta della muta è la pellaccia tra i rovi. La poesia come scoria espulsa dalla polis mutante. Sotto il sole feroce del tardo capitalismo globale tradizione e pietà attendono entrambe di decomporsi. Consapevole rifiuto urbano quello che oggi mi si spalanca, come poeta e come giovane uomo, è la possibilità di riconoscermi in un’alterità. Esiliata e oltre le mura nasce un’esistenza nuova. Non sono un poeta civile perché non ho avuto nessuna civiltà di riferimento. Non sono un poeta realista perché l’unica realtà che conosco è la solitudine. Sono il tentativo mancato di resistere al disumano. Subire l’epoca senza compiacersene vuol dire, anche, permanere nella musica, in un’armonia pur degenere che non ceda al cinismo della prosa (se non divorandola come inserto). La tradizione classica è indispensabile: tradirla senza sanguinare è solo un’altra forma di obbedienza al dogma della dismissione. L’Italia è un laboratorio straordinariamente fertile per il nuovo poema. Qui il presente non ha mai smesso di spiegarsi attraverso i suoi più o meno disarticolati sistemi di segni, gesti e nuovi gerghi a eludere gli standard ufficiali della comunicazione di massa. Un crocevia di esperienze epocali visualizzabili in un solo tragitto cittadino: tra i testimoni del collasso, i reduci dall’olocausto africano e gli eterni adolescenti nel sole. In questo ordito fonico è avvenuto il Battesimo, sotto i traumi e i miracoli della comunicazione, di una generazione devastata, esterna a ogni cosa. Corpi senza posto lungo le dissestate strade della provincia italiana, dalle scuole private di mandato allo sbando tecno-barocco delle notti irreali. Dalla ricerca di un lavoro, poi, alle fauci impassibili della grande crisi. Gli anni Duemila erano lì, pronti da tempo a raccogliere i frutti acidi di questa semina geneticamente modificata. Essa ad ogni modo reclama il proprio diritto di esistere; se non nella vita frustrata dall’epoca perlomeno nel canto, da borderline. Oltre l’eterno ritorno delle capitali del Canone, i castelli vuoti della cultura specializzata, è possibile abitare la poesia come un servo in rivolta, che scappa via con il cavallo del padrone e apprende da sé sorprendenti numeri di fuga. Ciò che importa è la meta raggiunta, non le cadute che la meta giustifica. Ma provate a farlo capire a un padrone! Impossibile. Egli continuerà a ridere di quella cavalcata non appropriata, secondo i canoni più aggiornati dell’equitazione; ma con un riso strozzato, quasi una smorfia di disprezzo e rabbia! E questa è in breve la storia della letteratura italiana. Si tratta di un grave limite, di una tara nazionale a cui prima o poi, quando un nuovo Contini o Pasolini o Deleuze e Guattari animeranno le nostre pagine culturali avvizzite dallo specialismo formalista dei post-avanguardisti come dal tedio parnassiano dei lirici, si dovrà pur porre rimedio. C’è tutto un capitolo di storia della poesia italiana da scrivere ex novo a partire dal riuso irregolare (e anti-borghese) del canone alto, ma anche specularmente dall’idea scapigliata di un necessario disinteresse nei confronti della ricerca stilistica come consapevolezza del dissolvimento della concezione romantica dell’arte come mito civettuolo dell’originalità. Ai posteri la valutazione di questi appunti.

 DAVIDE NOTA

 

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