New York, 1936; sala del Savoy, sulla Lenox Avenue, l’enorme pista da ballo oscilla come il ponte di una nave sotto il peso di centinaia di ballerini che danzano uno swing vorticoso. È la musica del momento. Un minuscolo batterista scandisce il ritmo. La cantante non è bella e non è bionda ma è la sua voce che guida la folla. È una ragazza giovane e un poco goffa. Per caso c’è lì ad ascoltarla anche una compositrice famosa, Mary Lou Williams: «Quella voce mi elettrizzò. Corsi verso la pedana per scoprire a chi apparteneva. Una ragazzina scura di pelle stava lì con aria modesta e cantava cose grandi. Mi dissero che si chiamava Ella Fitzgerald e che Chick Webb l’aveva trovata in uno show per dilettanti».Ella Fitzgerald, che fino a pochi anni prima sognava di diventare ballerina, è al suo primo contratto con il gruppo del percussionista Chick Webb, il “piccolo gigante del frastuono”. Famoso come scopritore di talenti, Chick non voleva saperne di lei: «Mi nascosero nel suo camerino e lo costrinsero ad ascoltarmi. Conoscevo solo tre canzoni. Chick non sembrava molto persuaso. Così acconsentì a prendermi in prova per una serata; la settimana dopo iniziammo a suonare al Savoy».
Il Savoy, che stava in quella che allora era considerata la Broadway di Harlem, con i suoi settanta metri di pista, due orchestre che si alternano senza pause in scena e un pavimento ondeggiante studiato per meglio sopportare il peso della folla danzante, è il tempio della musica del momento ed è qui che Ella viene incoronata regina dello swing. Ha sedici anni e Chick non le permette di cantare canzoni d’amore “adulte”. Quando nel ’37 incide il primo disco Love and Kisses, per poterlo ascoltare «dovevo pregare qualche persona di buona volontà che azionasse il juke-box in qualche bar dove io per la mia età non potevo mettere piede».
Siamo alla fine degli anni Trenta. Nel ’33 il proibizionismo viene spazzato via e con questo, tutti i locali nati sulla sua scia. Il jazz, che in quel periodo si suonava nei posti in cui si beveva, esce all’aperto. Divengono importantissime le sale da ballo (ballroom). Ci sono da dimenticare diciassette milioni di disoccupati, trentamila fallimenti, cinquemila banche chiuse e il reddito nazionale dimezzato. La gente va in giro con un distintivo di latta appuntato al bavero della giacca con su scritto “non parlatemi della crisi”, da mostrare ogni qualvolta un amico inizia a parlarne. E allora tutti fuori a divertirsi in locali dove la musica deve essere vivace, briosa ed eccitante, facile da ricordare e fischiettare. È il trionfo dello swing, che si diffonde via radio come un incendio. È musica per la radio. È la radio.
La Fitzgerald nasce nel 1917 in Virginia e cresce a Yonkers, un sobborgo di New York. Una famiglia sfortunata e la miseria spingono fin da piccola sui marciapiedi dove, come cantante di strada, si guadagna da vivere Ella vive con la madre che lavora in una lavanderia, è povera e ha un sogno: il palcoscenico. Si diverte a imitare la voce di Connie Boswell, la più brava delle Boswell Sister, tre bianche. È musica dolce, rassicurante. Il jazz si può ascoltare nei cabaret di Harlem, che però sono gestiti solo da bianchi. Persino locali come il Cotton Club, famoso per le prestigiose orchestre di nere, erano “Jim Crow” (tutto ciò che era vietato ai neri. Il termine ha origine dal titolo di una canzonetta scritta da Thomas D. Rice) cioè riservati ai bianchi, bianchi ricchi.
«Andavo da Yonkers al centro di Manhattan nella speranza di salire sul palco come ballerina. I musicisti ogni volta che mi vedevano dicevano “ecco ancora quella ragazzina”. Mi sedevo davanti all’orchestra ad ascoltare. Non avrebbero mai pensato che sarei diventata una cantante». E lei neanche. Comincia a cantare per caso: partecipa alle serate per dilettanti. Poi la grande occasione con la band di Chick Webb. Nel ’38 canta una canzone scritta da lei, A Tisket A-tasket, una versione swing di una filastrocca infantile. È un successo. I lettori di «Down Beat» la eleggono cantante dell’anno in tre referendum successivi. Nel ’38 canta con la band di Webb da Levaggi (un famoso ristorante di Boston), mai prima d’allora una jazz band ci aveva suonato. Meno che mai una band nera. Nello stesso anno grazie a Ella e a Chick si spalancano per i musicisti neri anche le porte del prestigioso Central Park Hotel di New York. Nel ’39 muore Webb. Ella assume la direzione dell’orchestra mantenendo il nome di Chick. Nello stesso anno la Germania invade la Polonia. Scoppia la seconda guerra mondiale. Roosevelt dichiara «Questa non è la nostra guerra», poi il 7 dicembre del ’41, in un sereno pomeriggio di domenica, i giapponesi bombardano Pearl Harbor. L’America entra in guerra. I musicisti vengono chiamati alle armi e il gruppo si scioglie. Ella decide di intraprendere un’attività più indipendente. Per un po’ di tempo canta con i Four Keys. Poi lavora come cantante solista. Nel ’45 si unisce per una tournée nel sud degli Stati Uniti a Dizzy Gillespie. In questa tournée comincia a cantare ‘scat’, eliminando il testo delle canzoni. Si dice che lo scat sia stato inventato da Louis Armstrong nel ’26, quando in una sala di registrazione gli cadde il foglio dove erano annotate le parole. Louis cominciò a cantare sillabe senza senso che diventarono subito melodia. I suoi ‘scoubidou’ e ‘zaz, zuh, zaz’ vengono ripresi nel ’33 da Cab Calloway ma è Ella che rende famoso questo modo di cantare. Incide per la Decca Flaying Home e più tardi Lady be good in versione scat. Entra nella Jazz at Philarmonic. Iniziano per lei una serie di importanti tournée in America e in Europa con un pubblico sempre molto caloroso. «Allora col Jazz at the Philarmonic cantava Helen Humes. Ma il pubblico cominciò ad appalaudirmi incitandomi a salire sul palco e a cantare, e io non me lo feci ripetere due volte». Siamo negli anni Cinquanta, il senatore McCarthy scatena la caccia al comunista. Circolano liste di proscrizione. Vengono messi al bando numerosi personaggi dello spettacolo. Alcuni, come Charlie Chaplin emigrano in Europa. Altri, come la scrittrice Dorothy Parker, restano, anche se questo significa non lavorare più.
Ella suona insieme a Count Basie per il pubblico elegantissimo e compassato del Waldorf Astoria. Una rivista dell’epoca descrive l’atmosfera: «La scorsa notte tutte le giunture dell’albergo scricchiolavano. Pardon, forse avrei dovuto dire: la notte scorsa i musicisti sono stati accolti graziosamente e con considerevole entusiasmo. Ma la verità è che quando Ella Fitzgerald canta e Count Basie suona il suo piano bollente, l’intero palazzo scricchiola». Nel ’54 Norman Granz diventa manager della Fitzgerald. Il pubblico la ama e affolla i suoi concerti. Canta con Louis Armstrong, affronta il repertorio di Duke Ellington e Cole Porter. Si moltiplicano le tournèe, partecipa a tutti i più grandi festival americani, europei e giapponesi. «Ho sempre cercato di variare, di imparare ogni giorno qualcosa di nuovo, altrimenti ci si fossilizza in quel che si fa e non si impara niente. Mi piace circondarmi di musicisti che mi spingono a migliorare». Dal ’71 un grave disturbo agli occhi la costringe a diradare gli impegni. È semicieca. «Ora devo stare attenta. Quando qualche fotografo mi spara un flash vicino alla faccia mi può venire un’emorragia agli occhi. È come se qualcuno mi desse un pugno in un occhio». Vive a Los Angeles, dove colleziona libri di cucina provenienti da ogni parte del mondo «Mi diverte leggerli. È come leggere delle storie d’amore. Vedi come con la stessa materia si possono fare molte cose diverse». «Rimpiango di non aver studiato musica. Qualche università mi ha chiesto di insegnare il jazz, ma io non sono una musicista. Non ho mai studiato. Sarebbe davvero bello se potessi sedermi davanti al piano a casa e scrivere qualcosa». «Un altro passo in avanti per me sarebbe imparare a cantare in diverse lingue. Si deve sempre continuare a imparare. Questo ti dà una sensazione di varietà». «Mi piacerebbe vedere un’orchestra jazz femminile. Ma forse mi accontenterei anche solo di poter vedere un’orchestra. È una delle cose che più rimpiango. Sarebbe molto bello se tornassero di moda le sale da ballo dove una volta cantavo».
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